C'è qualcuno ancora vivo la fuori? - di Marco Palladini
𝐒𝐜𝐡𝐞𝐝𝐚 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐨
𝐓𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨: C’è qualcuno ancora vivo là fuori? — Altre investigazioni.
𝐀𝐮𝐭𝐨𝐫𝐞: Marco Palladini.
𝐄𝐝𝐢𝐭𝐨𝐫𝐞: Gattomerlino/Superstripes.
𝐀𝐧𝐧𝐨: 2024.
𝐏𝐚𝐠𝐢𝐧𝐞: 238
𝐏𝐫𝐞𝐳𝐳𝐨: € 20,00.
𝐀𝐜𝐪𝐮𝐢𝐬𝐭𝐨: https://www.gattomerlino.it/.../443-c-e-qualcuno-ancora...
Fin dal titolo Marco Palladini mette in scena un enigma: «c’è ancora qualcuno vivo là fuori?». L’immagine iniziale è quella di un sopravvissuto che parla da un rifugio e confonde la protezione con la vita; il “dentro” suona come bunker, stanza mentale, bolla di linguaggio, in opposizione a un “fuori” minaccioso. Ma se capovolgiamo la prospettiva — e il libro ci invita a farlo — chi parla dal rifugio potrebbe essere l’unico davvero intrappolato, mentre i personaggi bizzarri dei racconti (precari, cyborg, investigatori concettuali) risultano i veri salvati proprio perché hanno scelto l’esposizione, il rischio, l’attraversamento del caos. In questa chiave, la domanda somiglia a un SOS più che a una rivendicazione di superiorità: il rifugio tende a farsi tomba, e la vita — se resta tale — scorre dove ci si sporca le mani.
Questo rovesciamento ha sponde teoriche solide. Agamben ha mostrato come nello “stato d’eccezione” il recinto che promette salvezza si rovesci in cattura, riducendo gli individui a “nuda vita”: formalmente salvi, sostanzialmente sospesi. Il narratore che parla dall’interno incarna questa sospensione; la vitalità passa invece per chi rifiuta la tutela permanente e percorre le strade. L’esistenzialismo di Heidegger e Sartre spinge nella stessa direzione: l’autenticità non coincide con la sicurezza, ma con il confronto senza schermi con la propria precarietà. Qui serve una puntualizzazione: per Heidegger l’angoscia non è paura di qualcosa di preciso. La paura ha un oggetto (il cane che morde, l’esame, il conto da pagare); l’angoscia no, è la scossa che toglie ovvietà al mondo, lo rende straniante (unheimlich) e spegne l’autopilota del “si dice” (das Man). Quella scossa funziona da sveglia: interrompe la chiacchiera rassicurante e rimette su di noi la responsabilità della scelta — fino a ricordarci che essere vivi è un incessante essere-per-la-morte. Sartre, con “A porte chiuse”, mostra la stanza come clausura dove si smette di crescere. Nel mondo palladiniano rimanere al riparo rischia di congelare l’esperienza; uscire significa assumere la libertà come gesto, anche quando fa male.
Camus, con la sua etica dell’assurdo, aggiunge un dettaglio decisivo: la vita non ha un senso preordinato, ma vale per la misura del nostro ostinato fare. Sisifo sa che la pietra ricadrà, eppure spinge: in quel gesto la dignità prende forma. L’osservatore al chiuso si illude di essere salvo ma smette di confrontarsi con l’assurdo; i freaks di Palladini, invece, tengono aperto il contatto e si muovono. Se allarghiamo ancora l’angolo, Deleuze e Guattari offrono un lessico per capire questi movimenti: i “personaggi concettuali” non sono eroi stabili, ma operatori che mappano il caos, connettono zone lontane, deterritorializzano. Non fortificano recinti: forano pareti, aprono passaggi, sostituiscono la difesa con la traiettoria. I protagonisti di Palladini lavorano così: smontano e rimontano il mondo, e la loro esposizione non è culto del rischio, è metodo di sopravvivenza.
La chiave formale è coerente con questa postura. Quando leggiamo Palladini, abbiamo l’impressione che il racconto non “contenga” il pensiero ma che lo produca, frase dopo frase. Opterei, nel suo caso, per la definizione di “pensiero narrante”: un’idea che si fa trama mentre avanza, e una trama che avanzando costringe l’idea a precisarsi. Heidegger parlava di un pensare che poetizza — non una spiegazione aggiunta dall’esterno, ma una parola che apre al mondo. Palladini spinge quel pedale. Il risultato è una lingua in moto continuo, stratificata ma leggibile: suono, ironia, scarti di registro, giochi di parole che funzionano come una mente al lavoro, senza compartimenti stagni tra poesia e racconto. È qui che il libro trova l’originalità più netta: non ci chiede di scegliere tra forma e contenuto, ci mostra come la forma pensi e il contenuto cammini.
Arrivati in fondo, la domanda del titolo smette di essere puro allarme: essere vivi non coincide con il respirare al riparo, ma con l’attraversare il presente frantumato senza delegare ad altri il compito di sentire, connettere, rischiare. Palladini, con i suoi “personaggi concettuali”, ci chiede dove ci collochiamo: barricati nella comfort zone o in strada, tra le macerie, a cercare segnali e superstiti. La sua risposta, più che detta, è mostrata: la vita abita il fuori che si muove. Dove restiamo fermi, smettiamo.
- 𝐌𝐢𝐫𝐨 𝐑𝐞𝐧𝐳𝐚𝐠𝐥𝐢𝐚