Consenso sessuale, tra fake e realtà
𝗡𝗲𝘀𝘀𝘂𝗻 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗿𝗮𝘁𝘁𝗼 𝗽𝗲𝗿 𝗳𝗮𝗿𝗲 𝘀𝗲𝘀𝘀𝗼, 𝗺𝗮 𝘂𝗻𝗮 𝗹𝗲𝗴𝗴𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝗺𝗲𝘁𝘁𝗲 𝗮𝗹 𝗰𝗲𝗻𝘁𝗿𝗼 𝗶𝗹 𝗰𝗼𝗻𝘀𝗲𝗻𝘀𝗼.
Te lo dico subito, così sgombriamo il campo dalle scemenze: nessuna legge italiana ti chiederà di firmare un contratto scritto prima di fare sesso. Nessuna. Quello del “consenso scritto” è una bufala politica e social, cucinata per far sembrare ridicola e minacciosa una riforma che, nella sostanza, dice una cosa semplice: senza consenso libero e attuale, è violenza sessuale.
La storia gira più o meno così: un titolo fuorviante su un sito di propaganda, “consenso scritto della donna prima del rapporto”, diventa in poche ore una pseudo-citazione diretta incollata sulla foto della Boldrini. La frase rimbalza su Facebook, Instagram, WhatsApp. Nessuno si prende la briga di andare a leggere il testo di legge, bastano il meme e l’indignazione prefabbricata. I fact-checker che l’hanno fatto, quel lavoro sporco, sono arrivati a una conclusione elementare: quella frase nei testi parlamentari non c’è; nei resoconti ufficiali non compare; la proposta non introduce contratti, modulini, app obbligatorie per dimostrare il consenso. È una notizia falsa. Punto.
Che cosa c’è davvero sul tavolo? Il 19 novembre 2025 la Camera ha approvato in prima lettura una riforma dell’articolo 609-bis del codice penale: il reato di violenza sessuale viene riscritto mettendo al centro l’assenza di “consenso libero e attuale”. Le pene restano pesanti (da 6 a 12 anni), la violenza, la minaccia, l’abuso di autorità restano rilevanti, ma non sono più l’unica lente. Prima il sistema guardava quasi solo ai lividi: sei stata picchiata, minacciata, immobilizzata? Adesso sposta il baricentro su una domanda diversa: eri davvero libera di dire sì o no?
“Libero” non vuol dire romantico, vuol dire giuridico. Un sì non vale se nasce da minacce, ricatti, forti squilibri di potere, dipendenze economiche o affettive, uso di sostanze che annebbiano la coscienza. È la lingua della Convenzione di Istanbul, che l’Italia ha ratificato da anni e che chiede di legare lo stupro all’assenza di consenso volontario, non alla quantità di forza fisica impiegata. “Attuale” significa che il consenso vale qui e adesso: lo puoi dare, lo puoi negare, lo puoi revocare in qualsiasi momento. Hai detto sì a un bacio, non hai firmato un all inclusive. Hai detto sì all’inizio, puoi dire no dopo. Non esiste il sì per sempre.
Questa non è un’invenzione esotica all’italiana: è la direzione già presa da vari Paesi europei – Spagna, Svezia, Danimarca, Belgio, Malta – che hanno riformato la definizione di stupro spostandola sul consenso. E no, neanche lì ti chiedono di presentarti a letto col contratto firmato. Ti chiedono qualcosa di molto più scomodo: verificare che l’altra persona sia davvero d’accordo, in quel momento, a quelle condizioni.
Perché questa riforma serve? Perché la pratica giudiziaria italiana ha mostrato tutte le sue crepe. Tribunali che ancora si domandano perché la vittima “non abbia urlato”, come se il freeze – la reazione di congelamento – non fosse documentata da anni. Sentenze che sembrano dire: se non ti sei divincolata abbastanza, se non hai riportato ferite evidenti, allora forse non è stupro. Un sistema che fatica a riconoscere le violenze in cui non vola uno schiaffo, ma c’è una pressione psicologica brutale, una dipendenza, una paura paralizzante.
Qui interviene il modello “senza consenso è violenza sessuale”. Dice ai giudici: smettete di misurare solo i lividi, guardate la libertà effettiva della persona. Dice alla società: il corpo di una donna, di un uomo, di chiunque, non è disponibile fino a prova contraria. Dice ai ragazzi e alle ragazze: il sesso non è una conquista su un oggetto, è un incontro tra due soggetti.
In parallelo, si agita la solita sceneggiata: il “contratto per fare sesso”, le “vendette personali”, gli “uomini rovinati da una parola”. Le false denunce esistono già oggi e il codice ha strumenti per punirle. Il problema reale, però, è l’esatto opposto: una marea di violenze mai denunciate e una massa di procedimenti che si sgonfiano prima della condanna. Chi si appende al feticcio del contratto sta facendo un’operazione precisa: cambiare inquadratura. Non parlare più della libertà di chi subisce, ma della paura di chi è chiamato, per la prima volta, a chiedere davvero.
La riforma non ti impone un modulo sul comodino. Non ti obbliga a usare app, registratori, firme digitali. Ti obbliga a una cosa molto più radicale: non usare il corpo degli altri senza un sì libero e presente. In tribunale continueranno a servirsi prove, testimonianze, riscontri; non basterà una parola detta dopo a rovinare una vita. Ma al centro dell’analisi ci sarà finalmente la questione giusta: quella persona, quella notte, in quelle condizioni, aveva davvero acconsentito?
Se questo ti spaventa perché ti immagini un futuro di contratti erotici, ti stanno vendendo un incubo di carta che non esiste nelle norme. Se ti spaventa perché ti accorgi che per anni hai dato per scontate cose che non erano scontate affatto – il “ma sì, le andava”, il “non ha detto di no”, il “dopo ha continuato a uscire con me” – allora il problema non è la legge, è la cultura in cui nuotiamo.
La verità è cruda e semplice: il desiderio non è un diritto esecutivo sul corpo altrui. Tutta la messa in scena sul “consenso scritto” serve solo a non guardare in faccia questo punto. A me, come Aristea, interessa esattamente l’opposto: guardarlo dritto, senza luci di scena. L’altro non è territorio da occupare, è un soggetto che può dire sì, può dire no, e può cambiare idea.
Sul resto – meme, bufale, titoli avvelenati – si lavora coi ferri del mestiere: smentire, ripetere, insistere. Non per difendere una politica, ma per difendere una cosa minima e gigantesca insieme: la legge in discussione parla di consenso, non di carta bollata del desiderio.
— 𝐀𝐫𝐢𝐬𝐭𝐞𝐚