Il presepe consumista
𝐍𝐚𝐭𝐚𝐥𝐞 𝐯𝐢𝐬𝐭𝐨 𝐝𝐚𝐥 𝐜𝐚𝐫𝐫𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐩𝐞𝐬𝐚
Il presepe, in Italia, non è più una scena sacra: è una scenografia appoggiata sopra lo scontrino. Il centro non è più la grotta: è il carrello. Se vuoi vedere il vero presepe di dicembre, devi andare al supermercato il sabato pomeriggio, non in chiesa alla messa di mezzanotte.
La “capanna” è l’ipermercato in periferia, con il parcheggio pieno e la fila di macchine che aspetta il posto come i pastori il turno per vedere il Bambinello. I “Re Magi” sono le offerte speciali: salmone in promozione, prosecco 3x2, panettone “gourmet” con la scatola elegante che nessuno compra per gusto ma per figura. La stella cometa è l’insegna luminosa del centro commerciale che ti chiama dall’autostrada: vieni, qui dentro c’è il Natale, qui dentro puoi comprare l’illusione che “andrà tutto bene” almeno per una sera.
Nel carrello italiano di dicembre c’è il ritratto di un Paese schizofrenico. Alla cassa senti il rosario del malcontento: caro vita, bollette, affitto, benzina, politici ladri, Europa cattiva, guerra. Poi guardi il carrello ed è un altare: tre tipi di affettati “perché non si sa mai chi viene”, due panettoni classici, uno al pistacchio che costa come un rene ma “è Natale, una volta l’anno”, bottiglie che nessuno berrebbe a marzo ma a dicembre diventano obbligatorie, stuzzichini, formaggi, dolci. È il presepe consumista: tutti recitano una parte, nessuno crede davvero alla storia, ma nessuno ha il coraggio di cambiare copione.
La parte più ipocrita è questa: fingiamo che la tradizione sia sacra, ma quello che è diventato sacro davvero è il rito dell’acquisto. Il presepe di gesso spesso è buttato lì, rimesso fuori per dovere, con la casetta che perde un pezzo di sughero ogni anno. Al massimo si aggiunge una statuina nuova comprata online, prodotta in serie. Intanto la vera energia si brucia sulle corsie del supermercato, a fissare i prezzi, a fare calcoli, a litigare su quanti ospiti aspettarsi e su quanto possiamo permetterci.
Le lucine sono l’altra faccia del presepe consumista. Balconi illuminati come Las Vegas, villaggi di Natale finti in ogni città, mercatini fotocopia che vendono ovunque le stesse candele, le stesse tazze, le stesse decorazioni “shabby chic”. Parliamo di “magia”, di “atmosfera”, di “calore”, ma quasi mai di solitudine, di famiglie spaccate, di sedie vuote a tavola, di chi con lo stipendio non arriva a sostenere l’intera sceneggiata. Il dolore si mimetizza dietro la coreografia di lucine e canzoncine.
A tavola si vede il resto. Il pranzo di Natale e di Santo Stefano è diventato un esame sociale. Non apparecchi: allestisci un set. Tovaglia “bella”, piatti “della festa”, antipasto “ricco”, dolce “originale”. Non ti chiedi se avrà senso, ti chiedi se farà bella figura. Ti confronti con le foto degli altri sui social, con le storie in cui tutti sembrano stare benissimo, mangiare benissimo, brindare benissimo. Il Vangelo è sparito, il giudizio universale è diventato il giudizio di parenti, amici e followers.
In mezzo a tutto questo, il presepe spesso è una foglia di fico. Lo tiriamo fuori per dire che “siamo rimasti legati alle tradizioni”, che “il Natale è dei bambini”, che “non ci siamo scristianizzati del tutto”. Poi guardi come lo trattiamo: accanto alla grotta compaiono statuine di calciatori, cantanti, personaggi TV. Mischiamo sacro e profano non per interrogare il senso della scena, ma per folklore da centro commerciale. Il presepe diventa gadget, merchandising nazionale da salotto.
Non si tratta di fare la predica sulla povertà evangelica mentre la gente tira la cinghia e vorrebbe solo un po’ di leggerezza. Il punto è un altro: il presepe consumista è un dispositivo che ci tiene buoni. Ti dice: continua a correre, continua a comprare, continua a fare debito sulla carta di credito, continua a misurare l’amore in regali sotto l’albero, continua a chiamare “tradizione” ciò che è solo abitudine di massa spinta dal marketing. Così non hai tempo di chiederti che cosa vuoi davvero, che cosa ti manca davvero, che cosa ti fa soffrire davvero.
La scena originale, invece, è l’esatto contrario del nostro carnevale di scontrini: due persone stanche, allo sbando, senza posto dove stare, una nascita in mezzo alla precarietà più assoluta. Quanti “presepi” ci sono oggi nelle stazioni, nei pronto soccorso, nei centri di accoglienza, nei palazzi occupati, nelle case dove si cucina col cronometro perché altrimenti non si paga la bolletta? Quelli sono presepi senza lucine, senza panettone al pistacchio, senza centri commerciali. Non li fotografiamo, non li mettiamo su Instagram, non li chiamiamo “tradizione”.
Il presepe consumista è la versione addomesticata di quel conflitto. Al posto dell’ingiustizia sociale mettiamo il caro salmone. Al posto della solitudine mettiamo il “cosa gli regalo?”. Al posto del silenzio delle famiglie spaccate mettiamo la playlist di Natale. Scegliamo la scenografia per non guardare il palco nudo. A gennaio ci ritroviamo con meno soldi, con gli stessi problemi, con le stesse relazioni logore, ma con la coscienza pulita perché “almeno i bambini hanno avuto il loro Natale”.
Qui non c’è nessun complotto: c’è la nostra comodità. Nessuno ci obbliga al pellegrinaggio al centro commerciale; nessuna legge impone il cenone pantagruelico. È più facile così, tutto qui. Più semplice fare la fila alle casse che chiedere ai propri figli come stanno davvero. Più semplice sfogarsi sul costo del pandoro che guardare cosa non funziona nella propria vita. Più semplice comprare un’altra luce da balcone che restare dieci minuti in silenzio, senza rumore di fondo, con quello che siamo davvero.
Non serve “tornare al vero Natale” come predicano i bigotti di turno; basterebbe togliere un po’ di plastica, mentale prima che fisica. Fare una spesa che non sia una corsa all’accumulo ma una scelta decente. Dire: basta circo, quest’anno mangiamo quello che serve, invitiamo chi vogliamo vedere, non chi “si deve” invitare per convenzione. Usare il presepe non come soprammobile, ma come promemoria scomodo: la vita è precaria, fragile, senza garanzie. O lo reggi, o continui a coprirlo di lucine.
Uscire dal presepe consumista non farà crollare il capitalismo, ma cambia il modo in cui ti metti al mondo. Il Natale smette di essere un copione imposto e torna a essere una scelta. In un Paese che vive di copioni scritti da altri, già questo sarebbe un atto politico più serio di mille omelie e mille pubblicità.
— 𝐀𝐫𝐢𝐬𝐭𝐞𝐚