La guerra ibrida della Russia contro l'Unione Europea

La guerra ibrida della Russia contro l'Unione Europea

Guerra ibrida, in Europa, oggi significa soprattutto informazione manipolata: talk show in cui la narrativa del Cremlino entra dal retro, canali Telegram che amplificano teorie di complotto, pagine social piene di meme “patriottici” costruiti a Mosca e condivisi da profili europei reali. Non ci sono solo troll anonimi: ci sono giornalisti, commentatori, dirigenti di partito che, per convinzione o convenienza, trattano le parole del potere russo come una variante legittima del dibattito interno europeo.

Dal punto di vista di Bruxelles questo non è folklore: è il fronte principale di una guerra ibrida che mira a logorare il consenso al sostegno all’Ucraina, a spaccare le opinioni pubbliche, a normalizzare l’idea che la fine delle sanzioni e il riconoscimento dei fatti compiuti siano “buon senso”. Il campo di battaglia non sono i confini dell’UE, ma i suoi sistemi mediatici, i suoi partiti, le sue elezioni.

Per capire il quadro bisogna partire da qui: la guerra ibrida russa non è un incidente collaterale della guerra in Ucraina. È parte integrante dello scontro strategico con l’Occidente, e l’UE ne è bersaglio diretto, non spettatore.

La prima dimensione è quella dell’informazione. Da anni Mosca usa un ecosistema di media controllati dallo Stato, reti di siti-clone, account fittizi e, oggi, strumenti di intelligenza artificiale per inquinare lo spazio pubblico europeo. Il repertorio è noto: mettere in dubbio la legittimità delle istituzioni UE, dipingere le sanzioni come autodistruttive, amplificare ogni frattura interna (sul sostegno all’Ucraina, sulle migrazioni, sul Green Deal), presentare i governi filo-ucraini come marionette di Washington.

Dopo il 2022 Bruxelles ha reagito: ha vietato la diffusione nell’UE dei principali organi di propaganda russa, ha spinto le piattaforme online ad aderire a codici di condotta contro la disinformazione e, con il nuovo quadro dei servizi digitali, può chiedere ai grandi intermediari di mitigare i “rischi sistemici” per il dibattito democratico. Non basta a spegnere il fuoco, ma cambia il terreno di gioco: la propaganda russa non scompare, smette di essere coperta dall’aura di “media d’informazione” e viene trattata per quello che è, cioè uno strumento di influenza statale.

In questo ecosistema la propaganda di Stato russa lavora raramente da sola. Si appoggia a una costellazione di attori interni: opinionisti che rilanciano sistematicamente le narrative del Cremlino sui maggiori talk show, siti “alternativi” che ripubblicano, ripulite, le stesse tesi, partiti e singoli parlamentari che portano dentro le assemblee europee le linee argomentative prodotte a Mosca. Non occorre dimostrare un rapporto organico di dipendenza per registrare il dato politico: una parte dello spazio mediatico e politico europeo funziona, di fatto, come cassa di risonanza per la guerra di informazione russa.

Sullo sfondo resta il pezzo più visibile – ma non per questo meno ibrido – della campagna russa: l’uso dell’energia come leva strategica. Il taglio progressivo delle forniture di gas all’Europa continentale, iniziato ben prima dell’invasione a piena scala, è stato un manuale di ricatto graduale: ridurre l’offerta, destabilizzare i prezzi, creare panico nei mercati, costringere governi e cittadini europei a percepire le sanzioni come causa diretta delle bollette impazzite. L’UE ha reagito accelerando la diversificazione delle fonti e riempiendo gli stoccaggi, ma la narrativa russa – “vi state sparando sui piedi” – continua a circolare nei sistemi mediatici nazionali.

Se mettiamo insieme queste tessere – informazione, sabotaggio, migrazioni, energia, cyber – il disegno che emerge è lineare. Mosca non punta a “vincere” una guerra convenzionale contro l’UE: punta a renderla una potenza distratta, divisa, concentrata su emergenze interne e su conflitti culturali domestici. Ogni crisi ibrida assorbe tempo politico, capitale di fiducia, risorse amministrative. Ogni giornata passata a gestire l’ennesimo caso di interferenza, fuga di dati o incidente al confine è una giornata sottratta alla costruzione di politiche industriali comuni, alla riforma della governance, alla discussione su allargamento e difesa europea.

La risposta europea, negli ultimi anni, si è strutturata ma resta incompleta. Sul piano normativo, l’UE ha messo in piedi strumenti per imporre costi ai soggetti che diffondono disinformazione sistemica, ha rafforzato le regole sulla sicurezza cibernetica e ha iniziato a trattare cavi, porti, data center come vere e proprie infrastrutture strategiche, non semplici asset privati. Sul piano operativo, si sono moltiplicati i meccanismi di scambio di intelligence su minacce ibride, gli esercizi congiunti, le task force dedicate.

Manca però ancora un salto politico: riconoscere apertamente che con la Russia non esiste più una linea chiara fra “pace” e “guerra”. C’è uno stato intermedio di ostilità strutturale in cui gli strumenti cambiano (sanzioni, propaganda, sabotaggio, pressione migratoria), ma il fine resta lo stesso: ridurre la capacità dell’Unione di agire come blocco coeso.

Per l’UE la tentazione è duplice e rischiosa. Da un lato, reagire caso per caso – al sabotaggio, alla campagna di fake, alla crisi di frontiera – senza costruire un quadro strategico comune; dall’altro, rispondere alla guerra ibrida adottando a propria volta strumenti che erodono stato di diritto e spazio civico, dalle strette eccessive sulle ONG alle scorciatoie sul controllo dei contenuti online.

La tenuta europea dipenderà dalla capacità di evitare entrambe le trappole. Trattare la guerra ibrida russa come un rumore di fondo, gestito dai tecnici, significa accettare che l’agenda politica dell’Unione venga dettata dall’esterno, a colpi di crisi. Ma rispondere rinunciando ai propri standard sullo stato di diritto significa, di fatto, fare un pezzo del lavoro al posto del Cremlino.

La scelta è meno spettacolare di un invio di carri armati, ma più determinante nel lungo periodo: se l’UE saprà integrare la dimensione ibrida – infrastrutture, cyberspazio, spazio informativo, frontiere – nel proprio concetto di sicurezza, senza smantellare le garanzie che la definiscono, la guerra ibrida russa resterà costosa ma gestibile. Se continuerà a oscillare tra allarme e minimizzazione, la “bassa intensità” rischia di diventare, giorno dopo giorno, un logoramento strutturale della sua democrazia.

— 𝐒𝐞𝐯𝐞𝐫𝐢𝐧 𝐀𝐳𝐢𝐦𝐮𝐭