Sarkozy in cella. Per chi il carcere ce l'ha in testa

Sarkozy in cella. Per chi il carcere ce l'ha in testa

N𝐨𝐧 𝐚𝐬𝐬𝐨𝐥𝐯𝐨 𝐥’𝐮𝐨𝐦𝐨, 𝐚𝐜𝐜𝐮𝐬𝐨 𝐥𝐚 𝐩𝐞𝐧𝐚 — 𝐢𝐧𝐮𝐭𝐢𝐥𝐞 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐠𝐢𝐮𝐬𝐭𝐢𝐳𝐢𝐚, 𝐬𝐭𝐞𝐫𝐢𝐥𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐥𝐚 𝐫𝐞𝐝𝐞𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞.

Non lo assolverò, non lo piangerò. Dirò solo che questa pena, così com’è, è una messa in scena. Nicolas Sarkozy è entrato a La Santé, cinque anni per cospirazione e finanziamento illecito legato alla campagna del 2007. Primo ex capo di Stato francese in cella dal dopoguerra. Entrata “esecuzione provvisoria”, appello pendente. Ma i fatti non bastano a fare giustizia quando la pena diventa teatro: peraltro di pessima qualità.

E qui sta la parte più sordida, da dire subito e senza infingimenti: prendere denaro dal regime di Gheddafi per farsi eleggere (2007) e, quattro anni dopo, spingere per l’intervento del 2011 che ne ha provocato la caduta e l’uccisione, consegnando la Libia a una faida di milizie e tribù, è infame. Prima incassi, poi elimini il creditore che magari ti ricatta. E il paradosso è questo: paghi solo per esserti fatto corrompere, non per aver fatto ammazzare l'uomo che ti ha corrotto.

Quindi - ripeto - non difendo l’uomo. Difendo l’idea che una democrazia non si nobilita facendo esibizione di sbarre. Sarkozy ha gridato allo scandalo giudiziario, la moglie ha postato solidarietà, i sostenitori lo hanno scortato come un campione caduto. È il copione perfetto: lo Stato mette il trofeo sulla mensola, l’imputato si veste da martire. Perdiamo tutti: noi, la legge, la verità. La giustizia non è un selfie con un detenuto importante sullo sfondo.

La giustizia o serve o è vendetta. Qui a che cosa serve il carcere? Sarkozy ha settant’anni, non comanda apparati, non può intimidire testimoni, non scorrazzava la notte armato. Il suo delitto è politico‑finanziario, ad alta sofisticazione e basso rischio di recidiva personale perché l’occasione è evaporata col potere. Rinchiuderlo non protegge nessuno. Non rieduca nessuno. Non ripara nulla. È punitivo, e basta.

“Uguali davanti alla legge”, mi dicono. Certo. Ma uguali non significa ciechi. La legge non è un martello che colpisce tutto allo stesso modo: la legge adulta sceglie lo strumento adatto al reato e al reo. Reati economico‑politici che avvelenano la fiducia pubblica si puniscono meglio con interdizioni vere, confische integrali, risarcimenti salati, obblighi di trasparenza pubblica e lavoro civico sotto controllo, non con chilometri di corridoi e una branda. La corte ha parlato; la condanna c’è. Ma la forma della pena la scegliamo noi come civiltà.

Il carcere moderno — quello a celle, a tempo e con pretesa rieducativa — nasce tra Sette e Ottocento: figlo di Beccaria e Bentham, dei sistemi Pennsylvania/Auburn. Amministra il tempo e non la colpa: mura, chiavi, corpi. Funziona quando c’è pericolosità concreta: chi minaccia, chi è armato, chi è recidivo violento. Per i reati di potere è una protesi morale: mostra severità, non produce civiltà. Non abbatte la corruzione, non ricuce la fiducia. È criminogeno dove pretende di essere educativo: isola, infantilizza, deresponsabilizza. Lo Stato di diritto è adulto quando sceglie lo strumento che riduce il danno e previene la replica, non quando esibisce la punizione come reliquia.

“Serve da deterrente”, dicono. Falso per due ragioni. Primo: il deterrente, per i potenti, si chiama rischio certo di rovina civile — niente incarichi, niente consulenze, niente porte girevoli — non il letto di ferro per qualche mese sotto telecamere; quello è carburante narrativo. Secondo: il deterrente nasce da istituzioni che funzionano ogni giorno — controlli, archivi aperti, audit esterno — non da un giorno di gloria al cancello. Il messaggio da mandare ai futuri corruttori non è “guardate le sbarre”; è “vi sequestriamo i soldi, vi smontiamo le reti, vi cancelliamo l’utilità sociale”.

Sì, le pene accessorie ci sono — ammenda da 100 mila euro, privazione dei diritti civici, civili e di famiglia per cinque anni, ineleggibilità per cinque anni. Eleverei di un buon 1000 per cento la pena pecuniaria, aggiungerei l'obbligo di atti di giustizia riparativa e di un qualche servizio sociale, tanto per rieducarlo a una partecipazione comunitaria sana e solidale. Il carcere lo lascerei stare. Tanto più c’è il rischio che vedo e non sopporto: la santificazione per contrappasso. Più mostri il corpo dell’ex presidente avviato alla cella, più gli regali il racconto vittimista. Lui parla di “scandalo giudiziario” e di “persecuzione”, i suoi urlano al complotto, mezza Francia discute della crudeltà o della giustezza del gesto.

“Ma il simbolo!” Il simbolo appartiene ai ragazzi che guardano. Insegniamo loro che lo Stato è grande quando mostra i muscoli? No. Lo Stato è grande quando misura, distingue, costruisce fiducia. Qualcuno obietterà: “La Francia mostra che nessuno è intoccabile.” Vero; e va riconosciuto. Ma l’esecuzione provvisoria in questo caso è un coltello senza manico: brandito per dire “vedete?”, lascia a terra una domanda più grande — cosa ne facciamo, domani, del male già fatto alla fiducia? Macron lo ha riconosciuto con prudenza: discutere di come si eseguono le pene è necessario, ma va fatto al riparo dai casi personali. Ed è qui il punto: il come non è burocrazia, è sostanza.

Non voglio un mondo dove i potenti rubano e brindano. Voglio un mondo dove ai potenti rubare non conviene mai, perché se li beccano tolgono loro tutto ciò che gli ha reso essere potenti: i soldi, le reti, la parola pubblica. Il carcere, in questa storia, non toglie niente di tutto questo. Toglie giorni. Regala narrativa. E alla fine non restituisce nulla a nessuno.

— 𝐀𝐫𝐢𝐬𝐭𝐞𝐚