Sciopero generale. Un venerdì nero per treni, scuole, ospedali e giornali
𝐃𝐢𝐞𝐭𝐫𝐨 𝐢 𝐝𝐢𝐬𝐚𝐠𝐢 𝐜’𝐞̀ 𝐥’𝐢𝐦𝐦𝐚𝐠𝐢𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝐏𝐚𝐞𝐬𝐞
Oggi l’Italia sperimenta uno sciopero generale che incrocia quasi tutto ciò che tocca la vita quotidiana: trasporti (treni, aerei, trasporto pubblico locale), scuola e università, sanità, altri servizi pubblici. In più, per ventiquattr’ore si fermano anche le giornaliste e i giornalisti, con molti siti d’informazione aggiornati solo in parte o fermi del tutto.
Dietro la giornata di disagi non c’è “solo” un conflitto sindacale. C’è un pezzo consistente di economia politica italiana che chiede di essere aggiornato alla realtà: salari, contratti, spesa pubblica, priorità di bilancio.
Lo sciopero generale è promosso soprattutto da sindacati di base (Cobas, Cub, Usb, Sgb e altre sigle) contro la legge di bilancio e contro l’aumento delle spese militari a scapito di welfare, sanità e istruzione. Nelle piattaforme compaiono richieste molto concrete: salario minimo a 12 euro l’ora, aumenti salariali che tengano il passo dell’inflazione, riduzione dell’orario di lavoro, investimenti in scuole, ospedali e trasporti.
Il dato di contesto è semplice: negli ultimi anni i salari reali italiani hanno perso potere d’acquisto, mentre i bilanci pubblici hanno continuato a scegliere combinazioni di tagli, esternalizzazioni e blocchi del turnover nei servizi essenziali. Lo sciopero fotografa questa tensione: da una parte la richiesta di redistribuire risorse da difesa e incentivi vari a sanità, scuola, trasporti; dall’altra la scelta del governo di concentrare la manovra su misure una tantum e su vincoli di finanza pubblica che lasciano poco spazio al welfare.
Sul fronte giornalistico, invece, c'è il contratto collettivo Fnsi–Fieg scaduto nel 2016 e non ancora rinnovato: in dieci anni l’inflazione ha eroso quasi un quinto del potere d’acquisto degli stipendi, mentre le redazioni venivano ridimensionate e i carichi di lavoro aumentati.
I sindacati dei giornalisti non chiedono solo aumenti salariali in linea con gli altri contratti: contestano anche il “doppio canale” che gli editori vorrebbero introdurre per i nuovi assunti, con salari più bassi e diritti più deboli rispetto ai colleghi già in organico. In un settore dove la precarietà è cronica e una parte dell’informazione vive grazie a contributi pubblici o pubblicità istituzionale, questo significa rendere ancora più ricattabile chi dovrebbe controllare il potere e raccontare il conflitto sociale.
Dal punto di vista economico la giornata di oggi mostra tre linee di frattura.
La prima riguarda la distribuzione delle risorse pubbliche. I sindacati che hanno indetto lo sciopero generale chiedono esplicitamente di “andare a prendere i soldi dove ci sono”: grandi patrimoni, extra-profitti, evasione fiscale, e di fermare la corsa al riarmo per dirottare spesa su salari, pensioni, sanità e istruzione. Il governo, finora, ha scelto un mix diverso: gradualità sugli interventi redistributivi, nessuna patrimoniale, conferma degli impegni su difesa e missioni internazionali.
La seconda frattura riguarda la qualità del lavoro nei servizi essenziali. Trasporti locali e nazionali, scuole, ospedali funzionano grazie a personale che negli ultimi anni ha visto peggiorare condizioni e prospettive: turni più intensi, organici ridotti, stipendi che non seguono il costo della vita. Lo sciopero rende visibile ciò che normalmente è nascosto: se chi guida i mezzi, cura i pazienti o tiene aperte le scuole si ferma, il Paese rallenta subito. La “normalità” dei servizi dipende da contratti e scelte di bilancio che oggi vengono contestati.
La terza frattura riguarda l’ecosistema dell’informazione. Quando scioperano i giornalisti, la notizia non è solo che un sito non si aggiorna o che un telegiornale salta. La questione è se la società ritiene ancora l’informazione un servizio essenziale da finanziare e proteggere, o un costo da comprimere. Il contenzioso sul contratto Fnsi–Fieg è anche questo: gli editori rivendicano crisi di settore e difficoltà economiche, ma nel frattempo chiedono di scaricare l’aggiustamento quasi interamente su chi produce contenuti, con proposte di aumenti minimi e tagli sui nuovi ingressi.
Il risultato è che lo stesso giorno in cui l’Italia discute di treni fermi, voli cancellati, scuole chiuse e reparti in difficoltà, si scopre che perfino chi racconta questi problemi lavora spesso con contratti scaduti, compensi bassi e carriere bloccate. Lo sciopero dei giornalisti è quindi una lente sul resto: la fatica di rinnovare i contratti nel pubblico impiego, la difficoltà di redistribuire risorse in una manovra vincolata da regole europee e da un debito elevato, la tendenza a scaricare i costi dell’aggiustamento sui gruppi meno organizzati e più deboli.
Resta da capire se la politica vorrà usare questo sciopero come occasione per riaprire quella conversazione, a partire dai contratti e dalle priorità di bilancio, o se lo archivierà come l’ennesimo venerdì di disagi. Dal punto di vista dell’economia reale, la differenza tra le due strade non è ideologica: è il confine fra un Paese che programma e uno che si abitua a spegnere e riaccendere i servizi finché qualcosa non si rompe davvero.
— 𝐒𝐚𝐥𝐝𝐨 𝐏𝐫𝐢𝐦𝐚𝐫𝐢𝐨