SOTTO SATURNO - di Giuliano Di Tanna
𝗦𝗰𝗵𝗲𝗱𝗮 𝗹𝗶𝗯𝗿𝗼
𝗧𝗶𝘁𝗼𝗹𝗼:
Sotto Saturno
𝗔𝘂𝘁𝗼𝗿𝗲: Giuliano Di Tanna
𝗘𝗱𝗶𝘁𝗼𝗿𝗲: Edizioni Solfanelli
𝗔𝗻𝗻𝗼: 2025
𝗜𝗦𝗕𝗡: 978-88-3305-677-7
𝗣𝗮𝗴𝗶𝗻𝗲: 120
𝐏𝐫𝐞𝐳𝐳𝐨: € 11,00
𝗔𝗰𝗾𝘂𝗶𝘀𝘁𝗼: https://www.edizionisolfanelli.it/sottosaturno.htm—
Uno che sta sotto Saturno e, mentre naufraga, continua a raccontare i resti, le facce, gli odori, le sciocchezze e le grazie minime di questo lento affondare. "Sotto Saturno", l’esordio tardivo di Giuliano Di Tanna, è questo: un uomo abbastanza navigato da riconoscere i rottami che riaffiorano – dell’infanzia, della sinistra, dei media, delle relazioni – scrivendoci su un libro che non fa sconti a nessuno. Nemmeno a sé stesso.
Saturno è una postura dell'«esser-ci». Il punto non è il pianeta, ma il modo di stare nel tempo. Il dio doppio, età dell’oro e malinconia, diventa patrono di un organismo a cinque lobi: elzeviri, infanzia americana, intermezzo comico, frammenti, incipit narrativo finale. Cercate la trama e troverete una costellazione che fa il giro su sé stessa e alla fine riapre l'orizzonte sul «continua».
Si parte dagli articoli scritti per "il Centro" (l'uomo ha navigato molto dentro quella redazione): cronaca minore, odori di settembre, bambini che scappano verso la scuola, migranti dispersi, corpi abbandonati, influencer ridicoli, cani e padroni che si somigliano. Poi, un passo indietro, e si torna a Rochester anni Sessanta, alla casa sull’albero che non si finisce mai, alla 7up, ai Beatles in tv, alle Azzorre. In mezzo, il circo di Foffo e Zoe. Segue un taccuino di schegge e aforismi e si chiude con un incipit che sa di romanzo work in progress ma che potrebbe benissimo essere l'ennesimo gioco situazionista che l'Autore dissemina nel libro.
Il rischio di un libro così frammentato è l’effetto antologia: belle pagine sparse, nessuna colonna vertebrale a sorreggere il corpo testuale. Di Tanna lo evita tenendo stretti tre fili che passano ovunque e tengono in piedi il gioco letterario.
Il primo è la cronaca minore. Gli eventi “grandi”: Piazza Fontana, Kennedy, il ponte Morandi, gli incendi nei boschi, restano sullo sfondo. Il cuore sono i margini: il bambino di provincia, il bar di quartiere, la fermata dell’autobus, il migrante nel fiume, il tabaccaio, il professore con la sorella che riemerge dopo quarant’anni. L’Italia entra in scena così: a furia di dettagli che tutti conosciamo ma che pochi riescono a restituire in un collage credibile. Di Tanna lo sa fare e lo fa. Gli eventi da titoli a nove colonne vengono riferiti quando servono, e non sempre servono. Perché spesso il dettaglio illumina da sé il tempo del suo accadere.
Il secondo è l’infanzia come patria definitiva. Rochester è il vero mito del libro. Gli episodi di "Infanzia americana" sono brevissimi, ma ognuno pianta un chiodo: un odore, un colore, una marca, un gesto. Benjamin tradotto in YMCA: la lavanderia dei cinesi, il giradischi azzurro, il figlio del macellaio con gli schizzi di sangue sulla parannanza, le Cadillac con le code di procione. Di Tanna parla del presente proprio perché torna ostinatamente lì. L’Italia di provincia, Pescara, la costa adriatica, vengono riletti con gli occhi del bambino che ha guardato l’America dal basso.
Il terzo filo che intreccia è l’idiozia organizzata. L’autore lo dice chiaro, nella breve nota biografica in coda al libro: «Ama soprattutto oziare ed è affascinato, fin dalla prima infanzia, dalla stupidità». A parte un capitoletto dove esplica il concetto, la vera saga di questa fascinazione sono Foffo e Zoe. Sopravvissuti del Sessantotto e degli anni Settanta, affogano in una rete di Bibo, Biba, Nanna, Ninno, Smamma, Sbobba, comunità, seminari, cause, abitudini, lamponi sacri e mulatti «sensibbbilisssimi». Una religione laico-gnostica che ha preso il posto della rivoluzione. Ridiamo, ma è un riso amaro: decenni di mitologia politica si sono sedimentati in folklore di gruppo, in giustificazioni permanenti, in una infinita auto-narrazione. Di Tanna non sale in cattedra a bacchettare. Quando riduce a stracci i cretini contemporanei, i compagni imbalsamati, gli entusiasti professionali, non recita la parte di chi si fa salvo collocandosi altrove: scrive da bordo nave imputandosi lo stesso naufragio, gli stessi tic, gli stessi abbandoni. Solo con una dose diversa di consapevolezza.
Questi tre fili – cronaca, infanzia, cretineria – non si disperdono. Tengono, proprio perché la scrittura ha un mestiere preciso: lavora sul dettaglio, sulla chiusa, sull’angolazione. Quando parla di scuola, per esempio, Di Tanna entra dagli odori – inchiostro, quaderni, diari, armadietti – e dalla terra di nessuno di settembre, sospesa tra mare e banchi. Quando scrive di Pescara e Roseto, evita ogni cartolina: piazza il lettore sul marciapiede, e lo spinge a guardare le donne sedute di lato sulla sella di Vespe e Lambrette, con le valigie incastrate fra chi guida e il manubrio.
Sul suo modo di scrivere è lui stesso ad avvertirci: «Non c’è niente di più complicato della semplicità. E niente di più urgente, di questi tempi in cui una nuvola di parole astratte avvolge la nostra vita quotidiana. Le parole inutilmente complesse che usiamo ci allontanano sempre di più dalle cose che dovrebbero indicare. [Invece] Le parole-cose sono lì che ci suggeriscono la via più breve per descrivere il mondo che c’è e per immaginare quello che vorremmo. Ostinarci a non usarle è un dispetto che facciamo agli altri e un inganno che infliggiamo a noi stessi». Chiaro esempio di scrittura auto consapevole, va presa alla lettera: frasi brevi o medio-brevi, chiuse che spostano il fuoco senza bisogno di spiegare troppo, una prosa che non inciampa sulle «astrazioni» ma posa la lingua sulle «parole-cose»: casa, tavola, sole, nuvola. Non c'è esibizione acrobatica ma il passo misurato di chi conosce la strada per andare al punto.
La stessa cultura alta è usata come attrezzo da lavoro: Benjamin, Simone Weil, Eliot, Fenoglio, Roth entrano ed escono senza che la pagina diventi passerella di citazioni. Si sente il cronista di lungo corso, con alle spalle anni di pezzi chiusi in pagina. Quando, per esempio, una vibrazione generazionale sfiora la posa - noi cresciuti tra Kennedy, Beatles, boom, carta di giornale, contro il presente obesamente connesso - lo soccorre l'autoironia («l'ironia è un tratto dello stile», ci avverte Manfred Franck) a evitare la soglia critica del "fantastici quegli anni". Così, l'Autore si limita a calare sul tavolo le carte cha ha in mano e lascia al lettore scegliere se tirare su un asso di denari o un due di coppe.
Cosa porta a casa, oggi, un libro così? Porta un archivio di mondo che non è solo privato. L’infanzia americana, l’Abruzzo, Pescara, la Lucera estiva, la stazione di Capracotta, i cinema, le sigarette, i juke-box, i flipper, i telefoni fissi, i fucili Carcano del caso Kennedy che non sparano: tutto questo è materia di storia sociale più che di semplice memoir. Messa giù con questa precisione, fra vent’anni sarà più leggibile e utile di molti saggi che teorizzano il “passaggio d’epoca”.
Porta una pedagogia della finitudine senza predica. I pezzi sui corpi, sui cimeli, sulla morte degli scrittori e dei divulgatori, sul cadavere lasciato nel fiume, sulla lumaca preistorica conservata nell’ambra compongono un’unica frase: sei di passaggio, arrangiati. Non c’è promessa di salvezza, non c’è retorica del “ce la faremo”: c’è il tentativo di fare pace con l’idea che si esce tutti di scena, e che il massimo che si può fare, mentre si sta qui, è tenere gli occhi aperti su quello che ci succede intorno. Con uno sguardo di feroce dolcezza.
— 𝗠𝗶𝗿𝗼 𝗥𝗲𝗻𝘇𝗮𝗴𝗹𝗶𝗮