Venerdì nero o paese ipocrita
𝐐𝐮𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐬𝐢 𝐟𝐞𝐫𝐦𝐚𝐧𝐨 𝐩𝐫𝐨𝐩𝐫𝐢𝐨 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐭𝐢 𝐫𝐢𝐬𝐨𝐥𝐯𝐨𝐧𝐨 𝐥𝐚 𝐠𝐢𝐨𝐫𝐧𝐚𝐭𝐚
Ogni volta che c’è uno sciopero succede la stessa scena: la politica che sbraita contro i “ricattatori”, i talk show che piangono sui “cittadini ostaggio”, i commentatori che spiegano che sì, il diritto c’è, ma andrebbe esercitato “senza creare disagi”. Come se lo sciopero fosse una festa patronale, non l’unico strumento rimasto a chi tiene in piedi i servizi mentre tutti gli altri pontificano.
Oggi è ancora più grottesco, perché a fermarsi sono proprio quelli che reggono l’ossatura del Paese. Chi guida i treni e gli autobus che ti portano al lavoro. Chi sta in reparto quando tu dormi. Chi tiene aperta la scuola dove parcheggi i figli. E chi racconta tutto questo, con un contratto scaduto da anni e stipendi mangiati dall’inflazione. A loro si chiede di essere invisibili quando lavorano e colpevoli quando si fermano.
La retorica anti-sciopero è sempre la stessa: non colpite “la gente”, non bloccate “chi non c’entra”. Ma chi è “la gente”, se non gli stessi lavoratori che oggi incrociano le braccia? Il Paese che si indigna per il treno cancellato è lo stesso che da decenni accetta turni impossibili, organici ridotti, contratti bloccati. Si scopre che esistono i macchinisti solo quando resti a piedi in stazione; ti ricordi degli infermieri quando il pronto soccorso esplode; ti accorgi dei giornalisti quando il sito non si aggiorna e improvvisamente capisci che i social, da soli, non bastano.
C’è un filo che lega tutto: l’idea che il lavoro di chi garantisce i servizi essenziali sia una specie di vocazione, qualcosa che “non può” fermarsi. Il ferroviere che deve farti arrivare a Natale dalla nonna. L’insegnante che “lo fa per amore dei ragazzi”. Il medico “che ha giurato”. Il giornalista che “ha la missione di informare”. Bellissimo, commovente. Peccato che quando si tratta di pagare salari decenti, rinnovare contratti, investire in organici, la poesia sparisca e restino solo i numeri dell’austerità.
E allora sì, lo sciopero di oggi è un pugno nello stomaco proprio perché mostra la dipendenza quotidiana da chi si vorrebbe muto e riconoscente. Se ti dà fastidio che per un giorno si fermi il treno, chiediti che cosa hai fatto finora perché chi lo guida possa vivere con un contratto dignitoso. Se ti irrita il telegiornale saltato, domandati perché ti va bene che chi lo fa lavori da otto anni senza rinnovo contrattuale. Se ti scandalizza il reparto in affanno, prova a ricordare quante volte hai votato chi ha tagliato la sanità in nome del “rigore”.
L’ipocrisia è tutta qui: si pretende che i servizi siano sempre accesi, anche quando chi li eroga è stanco, sottopagato, precarizzato. Quando finalmente questi lavoratori decidono di spegnere l’interruttore per ventiquattr’ore, il Paese che li dà per scontati grida allo scandalo. Non perché lo sciopero sia ingiusto, ma perché costringe tutti a guardare il costo reale di una normalità costruita sui loro sacrifici.
Uno sciopero non è mai comodo. È proprio questo il punto. Se lo senti addosso, se ti rovina la giornata, forse è il segnale che chi si ferma nella tua giornata ha un potere che hai finto di non vedere finora. E che la vera emergenza non sono i disagi di oggi, ma il silenzio di domani se queste voci tornano a lavorare come se niente fosse.
— 𝐀𝐫𝐢𝐬𝐭𝐞𝐚