Erro Ergo Sum - di Miro Renzaglia
𝐒𝐜𝐡𝐞𝐝𝐚 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐨
𝐓𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨: Erro ergo sum
𝐀𝐮𝐭𝐨𝐫𝐞: Miro Renzaglia
𝐄𝐝𝐢𝐭𝐨𝐫𝐞: Edizioni Solfanelli
𝐀𝐧𝐧𝐨: 2025
𝐏𝐚𝐠𝐢𝐧𝐞: 96
𝐏𝐫𝐞𝐳𝐳𝐨: € 10,00
𝐈𝐒𝐁𝐍: 978-88-3305-685-2
𝐀𝐜𝐪𝐮𝐢𝐬𝐭𝐚: https://tabulafati.com/ec/product_info.php?products_id=2728
In "Erro ergo sum" la linea Democrito–Epicuro–Lucrezio–Nietzsche–fisica quantistica viene nominata una volta, ma fa da mappa sotterranea a tutto il libro. Democrito segnala l’uscita dal mito e la decisione di prendere sul serio la natura: il pensiero lavora su corpi e processi, non su essenze. Il piano operativo, però, non è l’atomismo democriteo con il suo meccanicismo causa–effetto, bensì la lunga scia che da lì porta a Epicuro, a Lucrezio, a Nietzsche e, infine, alle immagini della fisica contemporanea, dove la materia si auto-organizza senza alcuna finalità ultima. Nel capitolo "Della materia" questa scia viene resa in chiaro da una frase («Democrito, Epicuro, Lucrezio. Poi Nietzsche. Quindi la fisica quantistica: materia–energia e campi come divenire senza fine ultimo; combinazioni che nascono e si disfano; nessun regista») che condensa tutto in un orientamento secco. Niente telos, niente Provvidenza, niente anima indipendente dal corpo: solo materia che si organizza, tempo che la corrode, vita come effetto locale e provvisorio; il resto – Dio, Stato, colpa, storia, persino la famiglia – come prodotto accidentale e talora simbolico di questo sfondo materiale.
Epicuro sta all’ingresso con la formula «Tutto è corpi e vuoto». Da lì, passando per Lucrezio, l’idea di clinamen – la deviazione minima che spezza la necessità cieca e apre spazio al mondo – riemerge ogni volta che "Erro ergo sum" insiste sull’errore come scarto produttivo, come condizione della storia, come difetto strutturale da cui si generano forme. Più che “aggiornare” l’atomismo classico, il libro lo usa come basso continuo: lo lascia sullo sfondo mentre porta in primo piano una materia tutt’altro che pacificata, caricata di colpa, debito, malattia del corpo. Il risultato è un materialismo tragico, non terapeutico. Unico sollievo: il piacere, qualsiasi piacere, ma quello della conoscenza e della curiosità del conoscere in primo piano.
Su questa base si innesta Nietzsche. La nota introduttiva parla apertamente di «debito di ascendenza intellettuale» e individua nel corpo a corpo con il nichilismo, nella fedeltà alla terra, nell’ipotesi dell’eterno ritorno spinta fino alla coincidenza di essere e divenire i tre punti di accordo (relativo, come vedremo). Il gesto è chiaro: smontare i dualismi – vero/falso, bene/male, anima/corpo, essere/divenire – in nome di una pratica di vita a-sistemica e di una scrittura che assume il conflitto e lo trasforma in stile. Qui la sequenza antica cambia temperatura: la vecchia impalcatura atomistica è già alle spalle, sussunta; ciò che resta è un materialismo senza scappatoie metafisiche, giocato tutto sul modo in cui si abita il mondo.
Nel capitolo sull’arte il pensiero riaffiora nella citazione di Gottfried Benn: «lo stile è superiore alla verità; reca in sé la prova dell’esistenza». Il vecchio dualismo essere/divenire viene risolto nell’atto artistico: non c’è un essere nascosto dietro il flusso, c’è il gesto che, per un attimo, fa coincidere tutto in un’opera, in un verso, in un canto, in una figura; non riverberi dell’Assoluto al di là del mondo, ma assoluti nella fatticità di questo mondo.
L’eterno ritorno viene attraversato con cautela. L’autore porta l’ipotesi nietzscheana oltre il punto di massimo avvicinamento tra essere e divenire e la condensa nella formula «essere è tempo». A differenza di Nietzsche, non cede al «sì» entusiastico alla ripetizione dell’identico, ammettendo casi – per esempio quello dei nati con malformazioni tali da impedirne l’autonomia vitale – in cui il «no» sarebbe ampiamente giustificato. E, ancora, contrariamente a Nietzsche, pensa che l’ultimo uomo, di fronte al nulla, accetterebbe di ripetere qualsiasi carico di dolore, pur di evitare il vuoto.
Su questo sfondo entra la fisica quantistica. Non come nuova religione, ma come conferma sofisticata della guerra ai dualismi. Niels Bohr appare già nella nota iniziale con il motto «contraria sunt complementa», assunto come alternativa alla logica binaria: non più “o/o”, ma tensione fra poli che si implicano. La meccanica quantistica fornisce immagini e concetti per andare ancora oltre: nel capitolo sul tempo si ricordano le equazioni che «fanno a meno della “t”», e il libro si chiede che cosa accadrebbe se questa sparizione del tempo uscisse dal laboratorio e arrivasse fino alla nostra percezione quotidiana. Perfino il tempo, che nella tradizione metafisica era la cornice stabile del divenire, qui si frantuma: diventa un costrutto, una convenzione, un modo umano di tagliare il flusso della materia.
Nel penultimo capitolo, dedicato all’io, la quantistica rientra dalla porta dell’osservazione: nel mondo subatomico la realtà non è semplicemente lì, «accade». Ogni misura la disturba, ogni sguardo ne decide una versione. L’oggettività si riduce all’ombra prodotta dal nostro interferire con l’altro-da-noi. Quando “io” e “tu” condividono osservazioni, la parola entanglement diventa figura per indicare il modo in cui le nostre vite, i nostri linguaggi, i nostri errori si intrecciano in configurazioni provvisorie, instabili, mai definitive. L’io sovrano viene spostato dal centro: è un nodo di relazioni, non un principio.
È importante che il libro non sacralizzi mai la scienza. Non c’è il trucco, mai troppo sottile, di sostituire Dio con il Quanto. La fisica quantistica resta un modello potentissimo e parziale, che intensifica il sospetto verso ogni idea di tempo assoluto, di verità immobile, di soggetto fuori scena, ma non viene caricata di compiti salvifici. L’autore insiste sul fatto che finora dai quanti sono venuti “solo” miglioramenti tecnici appoggiati su scoperte precedenti, e che il problema non è credere nella scienza, ma convivere con gli effetti delle innovazioni, come è stato fatto con le altre grandi rivoluzioni del passato: scrittura, polvere da sparo, elettricità, radio, industria, internet.
Al centro di questa linea resta l’errore come deviazione che apre lo spazio della storia; errore come evidenza contro la pretesa di possedere la verità; errore come struttura stessa dell’osservazione, che deforma ciò che misura. L’uomo del titolo, l’io che parla, non è un soggetto che sbaglia “ogni tanto”: è un fascio di tentativi riusciti a metà, di interpretazioni che non colgono mai il centro perché il centro non c’è. E proprio per questo, forse, scrive.
Alla fine, questa genealogia non serve a chiudere le domande, ma a togliere appigli. Non c’è fondamento, non c’è scopo, non c’è giudice ultimo. Resta una pratica: guardare il mondo come materia che si organizza e si disfa senza perché; assumere il proprio errore da cui si impara a restare in piedi per almeno un pezzo di cammino, fino alla caduta successiva; tenere insieme gli opposti come complementari, tentare un certo stile nel farlo. Che cosa giustifica lo sforzo di cercare «non so cosa» in un universo del genere? Il libro non offre risposte consolatorie. Sembra suggerire soltanto questo: non lo giustifica nulla, se non il modo in cui ci si ostina a farlo. E questa è già una forma di destino.
— 𝐄𝐫𝐚𝐜𝐥𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐑𝐢𝐚𝐥𝐭𝐨