Nietzsche e/o Cristo
𝐓𝐫𝐚 𝐃𝐢𝐨𝐧𝐢𝐬𝐨 𝐞 𝐢𝐥 𝐂𝐫𝐨𝐜𝐢𝐟𝐢𝐬𝐬𝐨
Non è il duello tra l’ateo arrabbiato e il santo rassegnato. È una contesa genealogica fra due economie della vita: da un lato l’affermazione dionisiaca che dice sì al divenire, con la sua quota di dolore senza riscatto ultraterreno; dall’altro la trasvalutazione cristiana che fa del dolore una moneta di valore, una cambiale sull’aldilà. Nietzsche la mette in formula asciutta: «Dioniso contro il Crocifisso». Non come slogan, ma come scelta di stile esistenziale—quale forza regge il nostro peso, e a quale prezzo.
“Cristo” per Nietzsche non è innanzitutto una figura storica da refertare, ma un dispositivo di valori: colpa, risentimento, redenzione, pietà elevata a norma. Non confonde però Gesù con la Chiesa. Nel L’Anticristo isola un profilo paradossale del Nazareno: un “tipo” evangelico che non giudica, che dissolve la legge nella prassi della mitezza, che non costruisce dottrina né istituzione. Lì cade la frase più tagliente e insieme più elogiativa: «Vi fu un solo cristiano, e morì sulla croce». Il resto è l’invenzione paolina, il genio organizzativo del risentimento: trasformare un annuncio vissuto in un credito universale di salvezza, amministrato da una Chiesa, con dogmi, tribunali dell’anima, contabilità dei peccati.
Qui entrano i concetti-chiave. Risentimento: la reazione del debole che non potendo colpire eleva a virtù la propria impotenza e ribattezza “male” la forza che lo ferisce. Ideale ascetico: una macchina che converte la fame di senso in culto del dolore, fino a farlo suonare come prova di verità. Compassione (pietà): non la generosità attiva, ma la moltiplicazione del patire come collante sociale. In questo quadro il Crocifisso, lettura ecclesiale, diventa il sigillo: soffrire è bene, la vita è colpa, il tempo presente è anticamera. Per Nietzsche questa è la tana fredda del nichilismo: una cultura che dice no alla vita, anche quando dice sì alla speranza.
Nietzsche scende allora nel corpo della storia come un anatomista che osserva un osso saldato male: Gesù “tipo” è la mobilità originaria, la tenerezza che sfugge alle strutture; il Cristo della teologia è la calcificazione di quella libertà in dogma. È nella saldatura tra annuncio e istituzione—Paolo—che l’inerzia del risentimento prende comando: la croce, da scandalo, si fa metodo. La colpa diventa eterna, il perdono amministrabile, la realtà un ponte obbligato verso un “altrove” promesso. La conseguenza, per Nietzsche, è una cultura che persevera nella malattia perché ne ha fatto la propria medicina.
Accanto a Paolo, il bersaglio è Agostino: non solo teologo, ma urbanista dell’interiorità. Con lui la “città di Dio” diventa una pianta regolatrice dell’anima: il peccato originale come debito ontologico, la volontà ferita come caso clinico permanente, la coscienza trasformata in tribunale. È l’atto che sposta il baricentro dal gesto al foro interno; ciò che si faceva nella piazza passa nella stazione di polizia dell’anima. In questa topografia Nietzsche vede il completamento del dispositivo: colpa — obbedienza — redenzione a credito. E tuttavia, paradosso fertile: lo Zarathustra mima la grande architettura che contesta. Prologo, discorsi, parabole, fondazione di una comunità, due tavole di valori che si contrappongono come due “città”: non imitazione servile, ma un contro-cantiere. Dove Agostino disegna la civitas Dei come tensione verso l’alto, Zarathustra mette in opera una civitas immanente: non pellegrini in attesa, ma artigiani del presente; non salvezza amministrata, ma prove di forza e di stile. La forma è ereditata per capovolgerne il traffico: stessa mappa, altra circolazione.
Contro questa economia del negativo, Dioniso non è licenza o ubriachezza: è la grammatica tragica del sì. Dire sì al dolore non perché salva, ma perché è parte di ciò che è. Dire sì alla gerarchia naturale delle forze, non come oppressione, ma come differenza di intensità. La Gaia scienza e la Genealogia mostrano a cosa serve questo sì: a restituire alla vita la sua innocenza, sciogliendola dal tribunale morale che fabbrica peccatori per fabbricare redenti. L’“eterno ritorno” è la prova estrema: puoi volere che questo istante ritorni identico, senza sconto e senza contabilità? Se sì, non hai più bisogno del Paradiso per amare la terra.
Europa, dice in controluce la lettura nietzscheana, è figlia di entrambe le matrici. Senza la cura cristiana dei deboli e senza il suo lavorìo di interiorità, saremmo un’altra civiltà; senza l’energia dionisiaca delle arti, delle scienze e della politica, affogheremmo nella colpa. Il punto non è sradicare, ma smascherare dove l’una diventa sofisma contro la vita. Là dove la croce si fa algoritmo del ricatto (colpa — obbedienza — redenzione a credito), là il cristianesimo si fa dispositivo reattivo della volontà di nulla, e la compassione si organizza come tecnica di governo. Al contrario, là dove l’“amore dei nemici” scioglie il ciclo del risentimento senza trasformarlo in ufficio pratiche, Nietzsche intravede una traccia quasi dionisiaca: perdono come forza sovrabbondante, non come tariffa morale.
Resta la provocazione: può un mondo “dopo Dio” reggere senza scivolare nell’ira o nella malinconia? Nietzsche non chiede di celebrare il dolore, ma di togliere al dolore il palcoscenico sacro. Dà alla gioia un compito severo: non nascondere il tragico, incorporarlo. Qui il “contro il Crocifisso” è anche un “contro la cattiva estetica del dolore”: la sofferenza non è una prova da esibire né una carta d’identità politica, è materiale da lavorare. Di fronte alla macchina della colpa, l’unica blasfemia sensata è tornire forme d’esistenza che non chiedano risarcimenti all’essere.
“Nietzsche e Cristo” è allora un nodo che riguarda noi, oggi: come metabolizziamo perdita, fallimento, ingiustizia? Con quale moneta paghiamo l’inevitabile? Se il pagamento è colpa, resteremo debitori per sempre; se è stile—forma alta del sì—il debito diventa energia, non catena. Alla fine la contesa non si risolve in un tribunale della verità, ma in un crogiolo: quali vite fonde e tempra ciascun racconto? La misura sta lì, nelle opere che restano dopo gli inni e dopo le invettive. La scelta non è tra fede e miscredenza: è tra un’arte di vivere che consuma la vita in attesa di giudizio e un’arte di vivere che fa del giudizio un mestiere della terra.
— 𝐄𝐫𝐚𝐜𝐥𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐑𝐢𝐚𝐥𝐭𝐨