Nietzsche VS. Platone

Nietzsche VS. Platone

𝐃𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐟𝐚𝐯𝐨𝐥𝐚 𝐝𝐞𝐥 «𝐦𝐨𝐧𝐝𝐨 𝐯𝐞𝐫𝐨» 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐟𝐞𝐝𝐞𝐥𝐭𝐚̀ 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐭𝐞𝐫𝐫𝐚

Nietzsche contro Platone è la cartella clinica di una ferita europea. Platone duplica il reale per salvare la verità dal tempo: eîdos oltre le cose, alétheia come disvelamento fuori dalla caverna. I sensi imitano, l’Idea misura. Nietzsche smonta genealogicamente quella architettura: la chiama terapia della paura del divenire, un’igiene dell’anima che preferisce un “oltre” immobile alla scomodità della phýsis che scorre. Non demolisce per gusto, interroga la funzione: che bisogno cura il «due mondi»?

Il dispositivo platonico è insieme ontologia e politica. Ontologia: l’essere vero è eterno, il divenire è difetto da correggere. L’eros è scala che sale dall’amato sensibile al modello intelligibile. Politica: chi ha visto il sole del Bene deve tornare e governare, perché la città si ordini sul metro dell’Idea. La virtù è proporzione, la giustizia è accordo delle parti. Qui Nietzsche riconosce una fisiologia: stanchezza della tragedia, sete di quiete. L’Idea come sedativo anche se nobile.

Sul crocevia c’è Socrate. Per Platone è l’inizio della vera cura: interrogazione, definizione, dialettica. Per Nietzsche è il primo sintomo della malattia: il logos che si fa tiranno contro il coro, la musica, Dioniso. L’uomo che «ha bisogno di ragioni» per vivere è già malato: così la dialettica rimpiazza il canto, l’ottava dei valori prende il posto del rischio. La guancia della Grecia cambia colore: l’apollineo misura, il dionisiaco viene disciplinato.

Da qui la genealogia del platonismo per il popolo: il cristianesimo. Ciò che in Platone era scuola dell’Idea diventa pastorale delle anime; il «mondo vero» scende in piazza e si fa dogma. Il risultato è una morale del risentimento: la terra come luogo di prova, il corpo come sospetto, il tempo come tassa. Il «due mondi» regge per secoli perché lenisce: dà un perché al dolore, promette che valga come ricompensa altrove.

Qui sta il punto centrale dell’ostilità di Nietzsche a Platone: svilendo la terra in nome del «mondo vero», si spalanca la porta del nichilismo. I valori supremi vengono disancorati dalla vita che li ha generati; la volontà di potenza si ripiega in volontà di nulla; il divenire, invece di essere lavorato, è scomunicato. Da qui la necessità della trasvalutazione: restituire alla terra il rango di misura.

La contromossa nietzschiana non è nichilismo distruttivo; è un monismo del divenire. Un solo mondo, molte prospettive: la verità non è copia dell’Idea, è funzione di forza, interpretazione che ordina e potenzia. «Prospettivismo» non significa relativismo rassegnato: significa gerarchia degli sguardi in base a ciò che accresce la capacità di formare. La domanda non è “è eterno?”, ma “cosa può?”

Dove Platone offre un codice, Nietzsche propone un’arte della selezione, uno stile: comandare su di sé, ordinare gli impulsi senza sterilizzarli, fabbricare valori a partire da corpi e tempi. Per Nietzsche l’episteme è Erkenntnis come pratica d’interpretazione: una forza che semplifica, seleziona e gerarchizza il divenire secondo una misura di potenza; non rispecchia, configura. La disciplina non è cattiveria verso la vita; è economia dell’attenzione. Così la “cura” della città cambia figura: dal filosofo re che amministra l’Idea, al legislatore di sensi che sperimenta forme di vita. Non sovranità dell’immutabile, ma progetto di intensificazione.

La differenza si vede dove brucia: nel valore del corpo e del tempo. In Platone, il corpo è ingombro da educare, il tempo è deviazione da correggere (Fedone). In Nietzsche, corpo e tempo sono le condizioni dell’opera: l’amor fati non benedice tutto, incorpora la necessità nella costruzione; l’eterno ritorno è prova di forza, non dottrina teologica. La terra non è un vestibolo: è il luogo dei compiti.

Ne deriva una etica non confessionale. Non redenzione per fedeltà all’Idea, ma crescita per prove, errori, selezioni. L’ascetismo, che in Platone purifica lo sguardo, in Nietzsche si divide: utile quando addestra, velenoso quando santifica la rinuncia. Il criterio è semplice e severo: ciò che rinforza la potenza di comporre è salute; ciò che la consuma in tribunali invisibili è malattia. Non è moralismo ma fisiologia dei valori.

E la politica? In Platone, la città giusta è mirata a rispecchiare l’ordine dell’Idea; il conflitto è un rumore da ridurre. In Nietzsche, il conflitto è materiale d’opera: si orchestra. La legge non «cala dal sole», nasce da legislatori che sperimentano e rispondono degli esiti. Non c’è un oltre che garantisca; c’è responsabilità della forma. È più rischioso, dunque più salvifico.

Nella Repubblica la giustizia è «ognuno faccia il proprio»: città tripartita — governanti/guardiani/produttori — come immagine dell’anima razionale/timica/appetitiva; paideía come addestramento lungo, censura dei poeti, comunanza di beni e affetti per i guardiani, governo del filosofo che ha visto l’Idea del Bene. Lo Stato è forma educativa del vero. Per Nietzsche lo Stato non è un fine ma il «nuovo idolo»: «lo Stato è il più freddo di tutti i freddi mostri» — mente dicendo «io sono il popolo». Qui è il dissidio con la kallípolis: là lo Stato fa da pedagogo dell’Idea e armonizza; qui il “mostro freddo” livella, raffredda la creazione e sostituisce il rango con il numero. La grande politica non è statolatria, è creare condizioni perché emergano tipi superiori e stili di vita alti; la legge è sperimentazione e selezione, non copia dell’Idea. Dove Platone fa del politico il custode dell’ordine, Nietzsche pensa il legislatore di valori, responsabile senza garanzie. Rischi speculari: in Platone la città giusta sacrifica il singolo al modello; in Nietzsche lo Stato che si assolutizza sacrifica la cultura al numero. Esito: kallípolis come armonia sorvegliata e unitaria (ogni parte al suo posto, conflitto ridotto, legge come educazione all’Idea); controproposta nietzschiana: non un modello unico di Stato, ma condizioni per molte forme di vita che sperimentano e competono, con Rangordnung (ordini di rango) fondate sulla forza creativa e sulla capacità di dare forma. Gerarchie mobili e culturali più che burocratiche; lo Stato è strumento, subordinato alla crescita di tipi superiori e opere.

Che cosa resta, alla fine, della contesa? Una scelta di postura. Due mondi per salvare il vero o un solo mondo da intensificare; verità come debito o verità come compito; filosofia come guardia dell’ordine o come officina del possibile. Nietzsche non “vince” Platone: lo attraversa e lo piega, trattiene il rigore e spezza la nostalgia dell’immutabile. Alla caverna non si risponde con un’altra uscita, ma con occhi che imparano a vedere nell’ombra. La terra non si supera: si impara a portarla.

— 𝐄𝐫𝐚𝐜𝐥𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐑𝐢𝐚𝐥𝐭𝐨