Volontà di potenza: il nome della forma
𝐍𝐢𝐞𝐭𝐳𝐬𝐜𝐡𝐞 𝐨𝐥𝐭𝐫𝐞 𝐢 𝐦𝐢𝐬𝐭𝐢𝐜𝐢𝐬𝐦𝐢 𝐞 𝐥𝐞 𝐦𝐢𝐬𝐭𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢: 𝐟𝐨𝐫𝐳𝐞, 𝐬𝐭𝐢𝐥𝐞, 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐩𝐫𝐞𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞.
Com'è noto, «Volontà di potenza» non è il titolo di un’opera pubblicata da Nietzsche. L’etichetta nasce dalla raccolta postuma "Der Wille zur Macht", montata tra il 1901 e il 1906 da Elisabeth Förster‑Nietzsche e Peter Gast a partire dai "Frammenti postumi" (Nachlass, soprattutto 1885–1888). Le edizioni critiche Colli–Montinari hanno restituito quei materiali ai taccuini, smontando l’idea del “libro perduto”. Qui si fa riferimento ai testi editi in vita e ai Frammenti postumi in edizione critica.
Stabiliamo subito una cosa: "volontà di potenza" non è un comando psicologico (“domina gli altri”), non è — in senso schopenhaueriano — una sostanza metafisica unica che riempie il mondo. Wille zur Macht è il nome che Nietzsche dà alla tendenza delle forze a espandersi, organizzarsi, interpretare. Dove c’è vita c’è selezione di stimoli, gerarchia di impulsi, stile che ordina: la volontà di potenza è il principio descrittivo di questa dinamica. Non istituisce un dovere morale; indica come operano i viventi quando stanno in salute: aumentano la propria capacità di forma.
Da qui il primo equivoco da sciogliere: non è la Volontà di Schopenhauer. In Schopenhauer la Volontà è unica, cieca, metafisica: la cosa in sé che si manifesta nei fenomeni, un volere senza scopo che condanna alla sofferenza e si placa solo con compassione e ascesi (negazione del volere). Nietzsche rifiuta quel doppio piano (cosa in sé/rappresentazione) e la terapia della rinuncia: niente sostrato unico, nessuna “Volontà” identica per tutti; solo molte forze immanenti in rapporto che si interpretano e si gerarchizzano. Volontà di potenza è il nome di questa pluralità in atto: non spegnere il volere, ma ordinarlo; non redimersi dal mondo, ma aumentarne la forma. L’etica conseguente non è del ritiro ma dell’affermazione; lo strumento non è la compassione che estingue gli impulsi, ma lo stile che li orchestra.
Conoscere, allora, non è specchiare un vero fuori dal tempo: è interpretare. Il “prospettivismo” non è relativismo indifferente; è gerarchia delle prospettive in base a ciò che accresce la potenza di comporre. Una teoria è più “vera” quando dà più presa sul reale, quando converte caos in possibilità d’azione. La verità è funzione di forza: non un tribunale esterno, ma il risultato di un lavoro riuscito sul mondo e su di sé.
Anche in etica la bussola è la stessa. Non bene/male come categorie eterne, ma salute/malattia come esiti di organizzazione degli impulsi. Le forze attive creano forme; le forze reattive rispondono difendendosi e spesso rovesciano l’impotenza in moralismo. Il Ressentiment ne è la chimica: non potendo affermare, si giudica; non potendo comporre, si condanna. L’ideale ascetico funziona finché è strumento (economia del dolore, disciplina degli affetti); diventa veleno quando si fa fine a sé: allora la volontà di potenza si contrae in volontà di nulla.
Se poi si vuole proiettare la volontà di potenza in disputa politica o fra nazioni va anche precisato che Nietzsche non fonda uno Stato né un contratto: diffida del “nuovo idolo”. Ma pensa una grande politica come arte di creare condizioni affinché emergano tipi superiori — individui, opere, culture — capaci di dare forma. Ordini di rango (Rangordnung) non come burocrazia, ma come qualità di stile. La legge, in questo orizzonte, non copia un’Idea; misura gli esiti e li rilancia: responsabilità senza garanzie.
Arte e scienza sono i laboratori visibili della volontà di potenza — ma Nietzsche distingue con rigore. È duro con la scienza quando si fa nuova chiesa dell’ascetismo: culto dell’“oggettività” come neutralità, fede nel fatto come fine in sé, casta degli eruditi ruminanti (Genealogia III; Al di là del bene e del male, “Noi dotti”). In questo caso la scienza eredita il moralismo: pretende di giudicare la vita dall’alto. Ma Nietzsche valorizza l’anima sperimentale della gaia scienza: onestà, rischio, metodo come askēsis al servizio della potenza e della verità terrena. L’artista seleziona, taglia, monta; lo scienziato, quando è all’altezza, costruisce strumenti e concetti che costringono i fenomeni a parlare. In entrambi i casi non c’è neutralità: c’è disciplina che intensifica. Qui stile non è ornamento: è l’economia della forza che decide cosa includere e cosa lasciare indietro.
E l’eterno ritorno? Come già detto in un articolo precedente sull'argomento, In Nietzsche non è una fisica del cosmo; è una prova di selezione. “Vuoi che tutto torni?” è la domanda che distingue chi può dire sì alla necessità da chi ha bisogno di un oltre per sopportarla. La volontà di potenza passa la prova quando fa del fatto duro materia di forma, senza invocare assoluzioni metafisiche. È il nome secolarizzato della fedeltà alla terra: amor fati.
Nessuna apologia della prepotenza, dunque. La volontà di potenza non è un invito alla sopraffazione; è il criterio con cui misuriamo ciò che ci rende più capaci di forma. Più comando su di sé, meno bisogno di dominare. Più disciplina come strumento, meno altari della rinuncia. Più stile, meno tribunali. Il resto è stanchezza travestita da morale.
— 𝐄𝐫𝐚𝐜𝐥𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐑𝐢𝐚𝐥𝐭𝐨